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Il nonnismo nello sport
- 22 dicembre 2025
- Posted by: federicadif46
- Categoria: Articoli
Il lato nascosto delle squadre: quando il nonnismo si traveste da spirito di gruppo
Nel mondo dello sport si parla spesso di squadra, amicizia e coesione. Tuttavia, dietro questi valori positivi può nascondersi un fenomeno più complesso e pericoloso: il nonnismo. Spesso viene descritto come un rito di passaggio o una “tradizione” utile a rafforzare i legami tra compagni, ma in realtà può avere conseguenze profonde sul benessere degli atleti e sull’equilibrio del gruppo.
Quando la violenza si maschera da appartenenza
Molti atleti raccontano di aver subito, all’inizio della loro carriera, scherzi pesanti o umiliazioni. Eppure, non tutti li considerano esperienze negative. Alcuni li descrivono come una prova necessaria per sentirsi accettati.
Il nonnismo viene spesso giustificato come una forma di “allenamento alla durezza”: chi resiste, dimostra di essere forte e meritevole del gruppo.
Il desiderio di appartenere spinge i più giovani ad accettare anche ciò che li fa stare male. Così la violenza diventa un linguaggio condiviso, una tappa “obbligata” per ottenere rispetto e riconoscimento.
Lo spogliatoio: il luogo dove tutto accade
Uno degli spazi dove il nonnismo si manifesta più spesso è lo spogliatoio. È un ambiente chiuso, lontano dagli occhi degli adulti, dove i veterani stabiliscono le regole e i nuovi arrivati imparano presto a non contraddirli.
La forza fisica e la sicurezza diventano simboli di potere: chi è più esperto o più sicuro di sé comanda, chi è nuovo deve obbedire.
Queste dinamiche rafforzano un’idea di mascolinità dominante, secondo cui essere uomini significa non mostrare debolezza. Chi esprime disagio viene ridicolizzato o escluso.
Perché si accetta il nonnismo
Per capire perché il nonnismo persista, bisogna guardare al bisogno di appartenenza. Ogni atleta, entrando in una nuova squadra, vuole sentirsi accettato.
I più giovani accettano le regole imposte dai compagni più esperti, convinti che “sopportare” sia il prezzo da pagare per sentirsi parte del gruppo.
Questo meccanismo crea un circolo vizioso: chi oggi subisce, domani tende a ripetere gli stessi comportamenti con i nuovi arrivati, perpetuando una tradizione di violenza travestita da spirito di squadra.
Le conseguenze psicologiche
Alcuni atleti dicono di essersi sentiti più forti dopo aver vissuto episodi di nonnismo. Tuttavia, le ricerche mostrano che gli effetti a lungo termine possono essere molto negativi.
Il nonnismo è stato collegato ad ansia, vergogna, calo di autostima e perdita di fiducia, fino a sintomi simili al disturbo post-traumatico da stress.
Sul piano collettivo, riduce la collaborazione e la fiducia all’interno della squadra: gli atleti iniziano a comunicare meno e a preoccuparsi più di rispettare le gerarchie che di giocare insieme.
Ne deriva una coesione solo apparente, che indebolisce la vera unione del gruppo.
Il silenzio che protegge il problema
Molti atleti non parlano del nonnismo per paura di ripercussioni o per non essere considerati “traditori”. Altri tacciono perché credono che denunciare un abuso possa danneggiare la reputazione della squadra.
Questo codice del silenzio protegge il sistema e permette al fenomeno di continuare, di generazione in generazione.
Mascolinità e identità nello sport
Nel mondo sportivo, l’identità personale è spesso legata alla prestazione. Più un atleta si definisce attraverso il proprio ruolo (“sono un vincente”), più tende ad accettare valori tradizionali come forza, sacrificio e resistenza al dolore.
Chi costruisce la propria autostima solo sulla performance rischia di giustificare il nonnismo come parte della “cultura dello spogliatoio”. Così la mancanza di empatia viene confusa con il coraggio, e la durezza con la forza.
Un caso emblematico: le parole di Thomas Ceccon
A rendere visibile ciò che spesso resta nascosto sono anche le testimonianze di atleti di alto livello. Thomas Ceccon, campione olimpico e mondiale di nuoto, ha raccontato pubblicamente di aver subito episodi di nonnismo quando era poco più che un sedicenne appena entrato in Nazionale. In un’intervista al Corriere della Sera, Ceccon ha ricordato come alcuni compagni più grandi avessero riempito di olio la sua valigia con i vestiti, giustificando il gesto come una forma di “correzione” del suo comportamento. Pur riconoscendo la propria giovane esuberanza, l’atleta ha sottolineato un punto centrale: educare e trasmettere regole può e deve avvenire in modi diversi, senza ricorrere all’umiliazione. Le sue parole mostrano con chiarezza come il nonnismo venga spesso minimizzato o normalizzato, anche quando produce disagio, e come venga confuso con lo spirito di gruppo o con l’idea di “farsi le ossa”.
Costruire un clima diverso
Cambiare questa cultura è possibile, ma richiede consapevolezza e impegno. Allenatori e dirigenti devono riconoscere il problema e parlarne apertamente, superando il mito del “fa parte del gioco”.
Un primo passo può essere sostituire i rituali di nonnismo con pratiche di accoglienza positiva, come attività di team building o momenti di condivisione.
Questi gesti favoriscono una coesione autentica e un senso di appartenenza sano.
Inoltre, è essenziale promuovere un clima di sicurezza psicologica, dove ogni atleta si senta libero di esprimersi, sbagliare o chiedere aiuto senza paura. Quando la fiducia cresce, migliorano anche comunicazione, motivazione e prestazioni. Riconoscere che il nonnismo non è spirito di gruppo ma una forma di esclusione è il primo passo per costruire squadre più forti, sane e davvero unite — dentro e fuori dal campo
A cura del dott.ssa Federica Di Francia
Alessandro Bargnani CEO
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