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Si nasce allenatori, oppure lo si diventa?. Considerando che oramai moltissime federazioni nazionali in tutto il mondo hanno creato e strutturato corsi per insegnare a gli atleti come vincere in uno sport, la risposta sembra scontata; però non per questo il percorso formativo degli allenatori finisce li. Gli interventi psicologici indiretti – quelli in cui lo psicologo forma l’allenatore e poi l’allenatore trasmette competenze al gruppo – stanno guadagnando terreno perché consentono di moltiplicare l’impatto: un solo coach ben preparato può raggiungere dieci, venti o cinquanta atleti a ogni giorno.
In letteratura si parla di indirect intervention quando lo specialista non lavora “faccia a faccia” con l’atleta ma affida al coach (o ad altre figure chiave) il compito di applicare tecniche di regolazione emotiva, comunicazione motivante e gestione dello stress. È un’idea meno nuova di quanto sembri: già prima del 2020 diversi studi avevano sperimentato l’utilizzo di protocolli Mindfulness-Acceptance-Commitment (MAC) consegnati allo staff tecnico. Un recente caso applicativo ha mostrato che, dopo otto incontri formativi con il coach, gli atleti hanno registrato miglioramenti significativi in consapevolezza attentiva e gestione dell’ansia pre-gara, senza mai incontrare lo psicologo. Ancora più eloquente una rassegna del 2023 che colloca proprio le azioni indirette (coach, genitori e dirigenti) in cima alla classifica delle strategie più efficaci per coniugare prestazione, benessere e sviluppo a lungo termine.
Il motivo è intuitivo: il coach è presente ogni giorno, gode di fiducia, osserva situazioni reali e può intervenire sul momento. In pratica diventa un “amplificatore” del lavoro psicologico.
Quando lo psicologo lavora direttamente con gli atleti, il focus è sulle abilità o sul benessere individuale (goal setting, imagery, self-talk). Con gli allenatori il registro cambia:
- Formazione da adult learner – incontri brevi, esempi concreti, riflessione guidata.
- Cicli osserva-sperimenta-rifletti in palestra o a bordo campo.
- Supervisione continuativa per prevenire il “ritorno alle vecchie abitudini”.
Il costrutto che fa da bussola è la coaching efficacy, cioè la percezione del coach di poter incidere su apprendimento, performance e crescita personale degli atleti. La validazione più recente del Coach Self-Efficacy for Body Image Scale (CSEBIS) ha allargato il concetto includendo la tutela dell’immagine corporea, con ottimi indici di affidabilità su campioni statunitensi. Non è solo teoria: studi longitudinali mostrano che la self-efficacy del coach predice soddisfazione e coinvolgimento dell’atleta più della competenza tecnica “misurata” con test di abilità.
Per portare quel senso di efficacia nella pratica quotidiana si usano strumenti agili:
- Video-modelling di colloqui post-gara.
- Checklist comportamentali derivate dal Coach Behavior in Sport Questionnaire.
- Micro-booster durante la stagione (15 minuti online) per rinforzare le competenze.
Allenatori, genitori e compagni tessono insieme il clima in cui l’atleta si allena. Quando il coach crea un ambiente orientato al mastery – attenzione al processo, feedback informativi, spazio all’errore – scendono ansia e burnout, salgono divertimento e resilienza. Una meta-analisi del 2024 quantifica il legame fra clima task-oriented e benessere edonico: correlazioni medio-alte su campioni giovanili e adulti.
Il ruolo dei genitori non è scontato: una review del 2023 conferma che il supporto autonomo materno-paterno potenzia la percezione di competenza e il valore attribuito allo sport, mentre pressioni centrate sul risultato la indeboliscono. Ancora più chiaro un lavoro (2025) sul nuoto giovanile australiano: i ragazzi che percepivano un clima mastery creato dal coach mostravano tassi di dropout inferiori indipendentemente dal talento e dal numero di ore di allenamento.
In pratica:
- Coach → cura il feedback (“cosa hai imparato?” più che “hai vinto?”), modella i comportamenti del gruppo, stabilisce rituali identitari.
- Genitori → normalizzano emozioni da bordo campo, sostengono obiettivi di lungo periodo, coordinano logistica e recupero.
Workshop congiunti coach-genitori riducono conflitti percepiti dagli atleti e creano un messaggio motivazionale univoco: impegno, autonomia, processo prima del risultato.
Formare gli allenatori come facilitatori psicologici costa poco, dura a lungo e migliora contemporaneamente performance, salute mentale e coesione di squadra. Partecipare a workshop, supervisioni o consulenze di psicologia dello sport è quindi un investimento strategico per ogni coach che voglia crescere atleti competenti, resilienti e – soprattutto – felici.
A cura del dott. Emanuele Conti.
CEO – Alessandro Bargnani
BIbliografia
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